Wyrgher – “Panspermic Warlords” (2023)

Artist: Wyrgher
Title: Panspermic Warlords
Label: I, Voidhanger Records
Year: 2023
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Dormant They Drift”
2. “Destroyer Of The Promethean Path”
3. “Solar Harvest”
4. “Summoning The Meteoric Titans”
5. “Supreme Leader Of A Dying Star”
6. “The Weeping Of A Blazing Rock”
7. “Panspermic Warlords”

“Primordial cells left upon the arid plains
Abandoned to evolve
Marooned to suffer aeons vast…”

La fantascienza che sonda tempi e spazi così lontani da noi, si sa, è un catalizzatore storicamente importante per le riflessioni molto più reali, vicine, terrene e se vogliamo prosaiche sui significati dell’esistenza: sul contenuto del mistero, sull’accezione della scoperta. Ora, non differentemente da un certo romantico e sublime gusto goticista dell’impervio, del pericoloso e di tutto ciò che -allo stesso tempo, nonché proprio per questo- è così piacevolmente distante in modo da rendere l’esperienza della paura verosimilmente agrodolce e mai estrema come al contatto diretto con la stessa, stimolanti e catalizzanti in tal senso sono stati e restano l’orrore di Alien, l’eccezionale apporto filosofico al discorso morale di Blade Runner; lo sono persino i molto più accessibili ricorsi e apostrofi tra bene e male di saghe leggendarie come Guerre Stellari o l’invenzione più o meno estrosa di mondi e creature lontane dove i rapporti tra uomo e primate, tra principi del creato e schiavi, vengono ribaltati ed ogni cosa rimessa in discussione. In musica, similmente, artisti come i Darkspace hanno preso pieno possesso di un tale linguaggio portandolo, semioticamente parlando, alle sue più estreme, spaventose e criptiche conseguenze. Altri hanno invece preferito guardare all’infinità inesplorata del cosmo con sentimenti aurali apparentemente ricolmi di magnetismo e di curiosità travolgente, come può essere stato solamente lungo l’ultimo decennio il discorso contestuale di band quali Mesarthim, Mare Cognitum o Midnight Odyssey – pur con tutte le loro differenze d’umori, ambientazioni e gradienti di luminosità nel nero pece dello spazio indagato.

Il logo della band

In una selezionata porzione di questo alveo, benché a meglio vedere in uno che a tratti può benissimo dirsi completamente differente al contempo, sembrano sguazzare le elucubrazioni concettuali e stilistiche di un progetto come quello degli svizzeri Wyrgher: indagatori dell’inusuale, del distante e del meraviglioso a differenza dell’assoluto, terrificante vuoto cosmico che tutto risucchia nella musica dei succitati colleghi connazionali; del suono della complessità dello spazio là fuori, dello stupore iniziale di fronte ad insondabili, ermetiche razze aliene e di tutto ciò che non soltanto è normalmente reputato di un’astrazione fuori da questo mondo ma, forse, piuttosto direttamente esterna a questo universo. La caleidoscopica complessità quasi definibile colorata del disco in oggetto di analisi, seppure sempre ancorata ed ingranata in un contesto fieramente Black Metal, non sembra infatti essere affatto casuale qualora ricondotta alla parola-nucleo nel concetto di πανσπερμία: ovvero dove ogni seminale e disperso germe di vita ha un’origine comune, un’esogenesi panspermica per l’appunto, come dalle teorie sempre al limitare estremo della scienza di Anassagora passando per i cronologicamente moderni Svante Arrhenius ed Hermann Von Helmholtz, con le più variopinte e spesso fantasiose derivazioni che, di studioso in studioso, sembrano in fondo una buona giustificazione per un disco il cui suono pare racchiudere in sé tutta la polvere di stelle dell’universo, portatrice -insieme a meteoriti, detriti spaziali e nondimeno astronavi atte allo scopo- dell’interezza della vita negli svariati angoli di galassie lontane e vicine.
Se dunque, come tratteggiato nell’introduzione, così spesso la scienza e l’inclinazione alla fantascienza dell’uomo -studioso o meno- sono nel primo caso tentativi di risposta ai grandi quesiti di origine e destinazione della vita, e nel secondo l’esorcizzazione di paure ed ignoto, che si tratti di utilizzare celebri pellicole à la Ridley Scott e Tim Burton, o ancora Kubrick e Lucas per creare storie, oppure di musica che innondi i timpani con il suono arrembante di un miliardo di navicelle aliene i cui motori rombano infiammando l’oscurità all’unisono, poca differenza fa nel discorso: si tratta sempre di quel processo di utilizzo della scienza, delle scoperte e delle osservazioni in primis quali araldi ultimi di meraviglia, di stupore di fronte al prodigio dell’universo ch’è insieme di mondi da scoprire e di conoscenza da acquisire – o, nelle parafrasate teorie di divulgatori sui generis come Carl Sagan, la celebrazione della scoperta scientifica che aggiunge un pizzico di misticismo irrinunciabile alla vita di ogni giorno, in una metafisica laddove l’idea fiction in moltissimi casi è stata scintilla e guida dell’attuale scoperta scientifica.

La band

Ma “Panspermic Warlords” aggiunge al contempo un cosiddetto twist maligno e distopico, coerentemente con le sue intenzioni musicali, alla dissertazione in corso d’opera: non la sola conoscenza astrale può essere l’obiettivo, bensì l’autorità suprema sulla vita e creazione stessa. Corriere di tanta duale meraviglia quanto di gran terrore distonico è infatti la casta guerriera protagonista nel concept lirico del secondo full-length a nome Wyrgher, dormiente in criogenesi mentre le gargantuesche navi a cuspide e monoliti di questi signori della conquista intergalattica disperdono il loro seme su pianeti disabitati, futuri avamposti per una guerra senza quartiere ad ogni altra specie. Una grande, immaginifica metafora su più livelli, chiaramente: da un lato, una riflessione più pratica sull’esistenza sempre creata senza una volontà propria e del relativo senso d’inutilità che ne consegue; dall’altro, la panspermia -da un nucleo la creazione a dispersione della vita, come un infinito alveare generante colonie spargendo i suoi semi ovunque- che non dissomiglia, in fondo, dalla forma dell’operato dell’autore Mentekel con le sue così differenti eppure paragonabili creazioni in Ungfell, Ateiggär, Kvelgeyst e più recentemente Ophanim, dove un centro di gravità più o meno permanente riesce a gettare brandelli di sé nel resto del cosmo musicale creandovi nuove e remote forme di vita.
Questa sofisticata similitudine meta-artistica, se così vogliamo leggerla, si traduce nell’ennesima dimostrazione di diversità e grande ispirazione da parte del polistrumentista e compositore elvetico, il quale ribalta convenientemente il suono delle precedenti manifestazioni a nome Wyrgher revitalizzando il progetto mediante l’aiuto del misterioso batterista Voidgaunt e con quella che, nei solchi audaci di “Panspermic Warlords”, suona quasi come una rinascita più che un prosieguo. L’ingenua stravaganza in particolar modo del debutto “Üüberirdh” (dove inclinazioni concettuali alla Magma, con tanto di lingua autoctona al progetto, convivono in un framework iper-saturo di robotizzazione dei Nachtmystium tra “Demise” ed “Instinct: Decay” in meccanica luce Blut Aus Nord di “MorT”), ma anche quella ancora dallo sviluppo in fieri dell’interlocutorio e derivativo EP “Kosmokrater” (più un avvicinamento teorico, forse, che non musicale in senso stretto), forniscono infatti basi da cui distaccarsi con ingegnose ma accattivanti dissonanze per la creazione in totale opposizione del secondo album: così come oppositrici e visionarie si esibiscono del resto le ricalibrazioni soprattutto delle peculiari forme chitarristiche ricche di paura, nonché di quelle vocali, degli ultimi Ateiggär dello scorso anno (non dunque prive di una certa, sebbene volatile, pesantezza prestata dal rigore del Death Metal o da una sicura fascinazione di antica modernità Ascension) dentro un contesto di disarmonia e liquidità melodica dal sapore cosmico pur senza mai ricorrere alla più facile effettistica regolarmente riconosciuta e idealizzata come tale, bensì integrata da subito nelle deviazioni strutturali, ab intra, nella progressiva inusualità complessiva. Lo dimostrano ampiamente sforzi compositivi di complicatezza portentosa e parimenti di orecchiabilità nondimeno eccellente quali il volare dei quasi dieci minuti della sinistra “Destroyer Of The Promethean Path”, dove a movimenti batteristici dal sapore Jazz si mescolano stridenti rifrazioni melodiche ed indimenticabili ottoni a dichiarare spietata guerra interstellare, o quelli della imperiale, cangiante marcia “Supreme Leader Of A Dying Star” come della finale title-track (lungo le sue trasformazioni in mid-tempo da sogno lucido, con quella conclusione in crescendo da brividi) – tanto quanto lo fanno gli scintillanti e francamente splendidi momenti di cruciale riflessione Ambient la quale dona un enorme valore cinematografico ed immaginoso al disco (non solo la transizione esplicita in “Summoning The Meteoric Titans”, reminiscente delle atmosferiche macchinazioni Urfaust in “Empty Space Meditation”, ma anche le medesime code dell’opener o del terzo brano) oltre ad aiutare a caratterizzare importantemente persino il resto della musica quando si fa più caotica e con maggiori punti di contatto con gli altri progetti parenti del duo; più o meno come -con le dovute distanze stilistiche, ma pure con tutte le debite comunanze atmosferiche- avviene in lavori quali “Thorns”, “Kosmonument” o “Fractal Possession”.
Anche tuttavia qualora il minutaggio si riduca, si prendano gli esempi della interessantissima fluidità tra sezioni in “Dormant They Drift” o delle teatrali deformazioni melodiche allucinate ad libitum in “Solar Harvest” come principali, la composizione non si svuota né si fa mai meno intrigante o più semplificata: i Wyrgher riescono sempre a regalare un’ottima varietà di soluzioni e tempi diventando ancora più gustosi sui rallentamenti tanto concreti quanto creativi (si badi, oltre a quello inquietante del brano d’apertura, a quello stortissimo, lavico e focale in “The Weeping Of A Blazing Rock”) mentre acuminati collassano come derelitti spaziali, frantumando tutto il loro vitale potenziale su pianeti dove polvere intersiderale muta col passare dei quasi cinquanta minuti complessivi in molecole aggregate, trasformando quello che fu un piccolo laboratorio di sperimentazioni personali e reinterpretazioni senza pretese di fascinazioni impossibili da integrare negli arcaici, folkloristici solchi di “Tôtbringære”, “Mythen, Mären, Pestilenz” o “Es Grauet”, non soltanto in un progetto autenticamente e legittimamente a sé stante, ma soprattutto in una delle manifestazioni migliori mai sentite nel suo intero ambito fantascientifico.

Ormai liberamente dotate di un senso autonomamente sospeso a piacimento tra passato, tradizione e ricalcolo di un futuro di spiritualità, dove sci-fi, scienza e rituale convergono insomma in un curioso ménage à trois (riassunto in vite e personalità più o meno eccentriche come il Jack Parson tributato, in questo ambito, da degli insospettabili Hexvessel) intitolato “Panspermic Warlords”, le possibilità di quello che ormai è ad ottima ragione il bardo prediletto e più versatile di Svizzera sembrano davvero essere linguisticamente infinite: dall’ex libris sì inconfondibile e di cui sono tuttavia imprevedibili gli esiti, non solo la mente tanto prolifica quanto estremamente e rinomatamente inventiva di Menetekel ci regala, con i Wyrgher anno 2023, ancora una volta una nuova visione di musica nera esteticamente differente da qualunque altro suo precedente esito, strana eppure approcciabilissima com’è (in questo, in un colpo solo, trionfando esattamente dove falliscono sia band come i Thantifaxath che progetti come Mare Cognitum); ma una che si dimostra coerentemente e totalmente aliena anche stilisticamente ai suoi disparati colleghi, in una bizzarra eppure splendida combinazione dell’apprezzatissimo “Tyrannemord” virato alla disarmonia più siderale e dissimilmente geometrica, al melodico vuoto assoluto del miracolo Darkspace esplorato, rivisto e quindi riscoperto riempito non di curiosi abitanti à la Hawkwind che vengono in pace, bensì di creature aliene spaventosamente pronte a trasformare nuova vita in guerra, in sottomissione, in conquista universale come risposta all’insensatezza dell’essere obbligati al trauma della nascita senza uno scopo; dove non c’è più distinzione alcuna tra la rovina di una civiltà ed il fiorire di un’altra, in quei semi di inquietante vita che, metaforicamente e non, si fanno colonna sonora e narrazione splendidamente visiva. Insomma: la conquista del cosmo da parte dell’Helvetic Underground Committee, volendosi concedere una curiosissima ma forse non così poco azzeccata metafora, non è mai stata così reale.

Matteo “Theo” Damiani

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